IV.

Dall’«Epistola alla Malaspina» al «Prometeo»

I sonetti sulla morte di Giuda sono una ripresa, con accentuazione drammatica e con mano stilistica, malgrado tutto, piú matura, dell’intonazione grandiosa-visionaria della gioventú. Ma questa maniera si intreccia, ora, oltre che con la vera e propria maniera tragica, con le altre maniere di cui il Monti si compiace a riprova della sua prediletta versatilità, sentita da lui come larga e ricca disponibilità poetica, secondo quanto egli dice in una lettera del 12 aprile 1788 al Torti presentandogli una canzonetta anacreontica[1].

Ecclettico ed effettivamente ricco piú di disposizioni che di un potente nucleo unitario[2], egli si mostra scarsamente sicuro anche nella direzione della sua poetica, nell’orientamento centrale della sua attività poetica.

Cosí, dopo le Tragedie e l’esperienza preromantica (con l’intermezzo isolato dell’Ode al Signore di Montgolfier), egli sembra avviarsi decisamente con l’Epistola alla Malaspina (e poi con la Musogonia e con le altre poesie minori) ad una correzione della sua poesia in forme piú sobrie e neoclassiche e in qualche modo a quella poesia sulla poesia, a quella poesia ispirata dall’amore per la bella letteratura di cui il Croce ha fatto il motivo fondamentale della poesia montiana: l’amore poetico dei bei carmi e dei bei miti, il superamento delle occasioni e delle tentazioni dell’esaltazione di avvenimenti contemporanei in un regno di puri affetti estetici.

Ma, come vedremo, quella scelta non è definitiva e, proprio mentre scriverà la Musogonia, la tentazione di farsi cantore di grandi avvenimenti, di essere il poeta di un entusiasmo collettivo lo porterà a scrivere la Bassvilliana.

La tendenza ad evadere dalla realtà presente nel regno intatto e sicuro della bella poesia, l’amore di questa (divenuto ora un «entusiasmo» piú fine e sicuro, piú disinteressato di quella enfatica voracità di «tutta la buona poesia» di cui il Monti parlava nel Discorso al Visconti del ’79 e che si realizza soprattutto in una utilizzazione poco scrupolosa della poesia altrui per i propri componimenti) trovano una manifestazione di particolare pregio e interesse appunto nell’epistola in endecasillabi sciolti rivolta nell’89 alla marchesa Anna Malaspina in nome del grande tipografo neoclassico G.B. Bodoni come dedica di una splendida edizione dell’Aminta del Tasso edita in occasione delle nozze della figlia della marchesa.

Poesia commissionata dunque, ma in questo caso la commissione e l’occasione non pesano negativamente, ed anzi lo stesso riferimento alla Malaspina, che era stata in Parma protettrice del Frugoni e di altri poeti, in un ambiente sempre piú aperto al gusto neoclassico, e la cui famiglia aveva come massima gloria la leggendaria protezione e ospitalità offerta da Moroello Malaspina a Dante, ben si accordava con l’ispirazione di questo componimento che canta l’elogio dei «bei carmi divini», della poesia consolatrice, della purezza gentile dell’Aminta, di quell’«idillio soave e delicato» che il Parini (ed è la prima volta che nella poesia montiana si avverte un’eco della poesia del Parini delle odi neoclassiche) aveva indicato nelle sue lezioni di Brera come un esempio altissimo di poesia italo-greca.

L’epistola nacque cosí in una lenta meditazione poetica, in un vagheggiamento (confortato da letture propizie[3]) della bella poesia italiana, della vita di poeti come Tasso e Dante, infelici e pur consolati dalla luce della poesia e dalla comprensione gentile di protettori generosi e sensibili.

E a questa ispirazione delicata, e vibrante di note elegiache misurate e contenute, corrispondeva un’elaborazione attenta e amorosa, vòlta a ottenere una poesia che «per stare a fronte all’Aminta vuol essere semplice, naturale e piú delicata che sia possibile», come dice il Monti nella lettera del 23 aprile 1788, al Bodoni, a cui poi, inviando il 3 maggio una prima redazione del «poemetto», assicurerà, con una specie di trepidazione e di modestia meno solita in lui: «Mi sono studiato di far una poesia di sapor greco», e gli accompagnerà l’invio di una seconda redazione con la spiegazione dei suoi scrupoli nel limare e rivedere una poesia cosí «delicata» a cui non si stancava di fare «alcune carezze di parole qua e là», di «castigarne» il piú possibile lo stile.

Ed era un’esperienza che, seppur precisata in relazione ad un «soggetto», certamente permetteva al Monti di manifestare disposizioni che ritroveremo nella sua poesia piú tarda (e specie nella Feroniade) al culmine del suo cammino, cosí poco rettilineo, in quella direzione piú neoclassica su cui per ora il Monti solo saltuariamente tornava.

Il risultato di quell’atteggiamento e di quella cura fu tra i piú persuasivi del periodo romano e davvero indicativo per una capacità montiana di un’energia piú pacata e sicura, di una voce sommessa e sobria, di una fantasia che, pur non rinunciando al colore e all’immagine ben rilevata, volge il colore verso la luce e rende l’immagine piú trasparente ed ariosa. E la costruzione piú misurata si risolve in un gentile e sensibile discorso poetico che trova svolgimento ed evidenza di temi e di passaggi, di quadri e di figure, senza ricorrere all’effetto e allo spettacolo piú vistoso, come il linguaggio raggiunge una sonorità piú delicata, una rotondità e floridezza piú assottigliate e alleggerite, una libertà senza sciatteria, un decoro affabile ed elegante, un’eloquenza poetica piú nitida e fine.

Nella trama sottile e continua, parti piú vive e ispirate sono l’elogio iniziale dei «bei carmi divini», la rievocazione «energica e delicata» (per dirla col Foscolo) dell’esilio e del rifugio di Dante presso i Malaspina[4], tutta la parte finale in cui, dopo l’esaltazione dell’opera della Malaspina protettrice della poesia in Parma (con la condanna del frugonianesimo degenere), in una ripresa pacata ed efficace del modulo delle visioni, sollevato in un’aura di coerente commozione poetica e di tenue elegia, si introduce l’ombra del Paciaudi (il celebre dotto e letterato della corte di Parma) a salutare negli Elisi l’ombra del Tasso e ad annunciargli la stampa bodoniana del suo Aminta e la felice epoca di mecenatismo disinteressato e generoso instaurato dalla Malaspina[5]: sequenza di versi, tenue discorso poetico davvero intonato (anche se quasi con una rinuncia eccessiva a impeti immaginosi che pur son parte istintiva della natura montiana) a quell’ideale di poesia delicata e gentile, a quell’entusiasmo meditato e sensibile per la bella letteratura, per la religione dei bei carmi e dei bei miti che sono il motivo animatore di questo componimento, e il centro di una tendenza che, meglio affermata nella piú tarda attività montiana (quando essa avrà vinto decisamente sulle tendenze piú enfatiche e grandiosamente eloquenti della poesia delle occasioni contemporanee, dello spettacolare scenografico e visionario, e avrà raccolto in sé le disposizioni piú depurate e mature della natura e dell’esperienza montiana), sembra già in questo periodo confortare il Monti ad una poetica piú neoclassica e sobria. Quale è quella che par dominare gli atteggiamenti del Monti in questi anni quando egli parla dell’Iliade (alla cui traduzione cominciò a pensare nell’88 tentandone un primo esperimento incerto nel metro cosí disadatto dell’ottava) come nel «vangelo di Apollo», o quando anche in sonetti di occasione, che, in anni precedenti, si sarebbero prestati a forme frugoniane e minzoniane e a ricerche di forti effetti di immagine “ingegnosa”, punta invece prevalentemente su immagini piú lievi e delicate, composte, su di un discorso poetico piú misurato, sommesso e continuo, su di una sonorità soave e temperata, su clausole piú lente e pacate (si vedano i sonetti del ’90 e del ’91 In morte di Teresa Venier e Per monaca), sullo svolgimento di temi di tipo pariniano (pudore e saggezza, come nel primo sonetto dell’89 Per le nozze Paolucci-Mazza), e ricorre a quel vocabolario neoclassico di parole che, per significato e suono, si riferiscono a ideali di tranquilla e semplice nobiltà, di casta e modesta bellezza; o quando nelle sue saffiche del ’93-94 (Invito di un solitario a un cittadino, Ad Amarilli Etrusca) esprime l’ideale di una vita serena nella fruizione di beni naturali e nella religione della poesia, la concezione del poeta al di sopra delle vicende e delle lotte («Ai dolci canti / delle fanciulle ascree l’aspre tenzoni / mal di Bellona si confanno e i tuoni / de’ bronzi fulminanti»).

Ma proprio in queste saffiche questa tendenza all’evasione dalla realtà si incontra (e il risultato ne è quanto mai contraddittorio ed impacciato anche nello stile) con l’altra tendenza del Monti a mescolarsi alle vicende, a cogliere le grandi «occasioni» della storia, ed «abbellire» i fatti grandiosi, a farsi cantore di entusiasmi contemporanei, a dimostrarsi «vate non imbelle», a interpretare addirittura la «vendetta» divina contro i violatori della pace e dell’ordine costituito.

E con questa tendenza riaffiora prepotente la tendenza alla maniera grandiosa, vaticinante e visionaria, con tutti i procedimenti e l’armamentario delle «visioni» giovanili.

Cosí, proprio nel ’93, mentre il Monti con la Musogonia sviluppava (seppure con una maniera stilistica che risente di una formazione eclettica e che è lontana dalle forme piú pure della Feroniade) la linea neoclassica e la poetica dell’illustrazione dei «bei miti» e della religione dei «bei carmi», egli non resisté alla tentazione di afferrare la grande occasione della lotta fra il Vaticano e le potenze «legittime» da una parte e la rivoluzione francese dall’altra e si dette alla costruzione della Bassvilliana. Ché in realtà la scelta della via neoclassica, della poesia dei «bei miti» e dei «bei carmi», non era definitiva e profonda, corrispondeva ad una tendenza, non ad una posizione intima esclusiva e il Monti era qualcosa di piú e di meno del «poeta della letteratura», aveva velleità confuse, ma difficilmente domabili, di una poesia grandiosa e «contemporanea» a cui credeva inadeguata quella stessa forma neoclassica che meglio corrispondeva (pur con le particolari caratteristiche di cui l’arricchiva e intorbidava il suo gusto piú istintivo) allo svolgimento e alla ricreazione goduta di miti lontani, vagheggiati nel fascino mal separabile della loro suggestione favolosa (e con la possibilità, in realtà piú vaga per il Monti, di un significato civile ed umano, di un’utilità didascalica in senso graviniano) e di quella della poesia in cui si erano tradotti nella storia della letteratura antica e moderna.

Quest’ultima era la via della Musogonia (scritta fra il ’92 e l’inizio del ’93), i cui intenti neoclassici vennero indicati dal Monti nell’«avvertimento» dell’edizione veneziana del ’97 che – nella vicinanza al Prometeo e ai suoi piú ambiziosi impegni – accentuava molto quell’intento didascalico-civile (la storia delle Muse in Grecia e in Italia fino al loro vittorioso canto del «risorgimento» in Italia della libertà e del trionfo della ragione) che rimase del resto piuttosto intenzione, dovendo venir attuata in un secondo canto che fu solo iniziato e poi abbandonato[6].

Piú interessante e coerente all’origine del «tenue poemetto» (come è chiamato in quell’«avvertimento») è la dichiarazione di fedeltà agli antichi mitografi, alla loro definizione dei miti, «consacrata da tanto tempo in Parnaso», e quella di un’aspirazione «all’attico gusto» sentito necessario ad «allettare... la studiosa gioventú nostra all’amore de’ Greci e de’ Latini, veri e soli maestri dell’ottima poesia»[7].

Il Monti, che nel Discorso al Visconti del ’79 aveva esaltato tutti i modelli della «buona poesia» e semmai si era scelto come piú suoi i poeti della Bibbia, qui aderisce chiaramente alle indicazioni neoclassiche dei soli modelli greci e latini, della mèta unica dell’«attico gusto», anche se egli – e forse non solo per convenzionale modestia – non si ritiene del tutto maturo nel possesso di quel gusto (come non solo per modestia, ma con una certa caratterizzazione della natura di questa sua opera, la chiama «tenue poemetto»).

Piú che di un saldo possesso dell’«attico gusto», la Musogonia è documento di un avvicinamento sulla strada che avrà il suo sviluppo piú sicuro dopo la grande esperienza della versione dell’Iliade ed è prova di un neoclassicismo che potremmo dire un po’ «illeggiadrito», mescolanza di un gusto piú latino e umanistico che «attico» (e veramente può stupire che il Foscolo abbia sentito nella Musogonia «greca fragranza»[8]) e di chiari residui piú settecenteschi e rococò, nel tentativo montiano di semplicità briosa, di superamento – non tutto riuscito – delle sue tendenze piú sonanti e grandiosamente spettacolari.

Gli stessi veri modelli, piú che Omero (a cui pure si intona la protasi) ed Esiodo (da cui il Monti prendeva il racconto mitico della nascita delle Muse), son qui il Virgilio piú raffinato e idillico, i poeti della decadenza latina, gli umanisti e soprattutto un Poliziano risentito molto secondo l’amore settecentesco per le sue «leggiadrissime ed elegantissime» Stanze (e non direi perciò, come è stato detto, che la Musogonia sia un poemetto neoclassico in ottave ariostesche, ché molto chiara mi pare l’attenzione del Monti piú a forme polizianesche che ariostesche), con in piú la simpatia del Monti – in questa sua ricerca di neoclassicismo aggraziato, elegante e pure affabile e brioso – per la venatura sorridente dei miti polizianeschi, per il linguaggio aulico e popolaresco, classico e moderno del Poliziano[9].

In realtà questo piacevole poemetto mitico è soprattutto un’esercitazione significativa sí per una posizione di evasione dalla realtà nel puro mondo dei bei miti e per una generale volontà di avviamento neoclassico, ma caratterizzata, piú che in un impegno di creazione di miti (come avverrà nel Prometeo), in una degustazione briosa e leggiadra dei miti antichi, specie nel loro aspetto idillico (la parte dedicata all’innamoramento di Giove per Mnemosine madre delle Muse occupa nell’economia del poemetto una parte preponderante), nel loro tono di grazia piú che di solennità, e di una grazia affabile e sorridente che risolve in forme quasi fiabesche anche le parti piú solenni[10] e contenutisticamente drammatiche, come la lotta fra i titani e il cielo, e che cerca nello stesso metro scelto, l’ottava (insolito nei poemetti neoclassici che prediligono l’endecasillabo sciolto, sentito piú vicino all’esametro greco e latino e scelto poi anche dal Monti nei suoi poemi neoclassici successivi), uno strumento adatto per una poesia che, pur rifiutando i metri troppo brevi e brillanti delle canzonette, vorrebbe congiungere compattezza narrativa (l’ottava, il metro della poesia narrativa ed epica della tradizione italiana) ad agilità e movimento, giuoco di rime, colore musicale.

Ne risultò una facile armonia aggraziata e agevole, coerente ad una ricerca di classicismo poco intenso, a un tono medio fine e brioso, a una versione meno impegnativa della «nobile semplicità e della tranquilla grandezza» in cui, d’altra parte, il gusto immaginoso e sonoro tipico della prima formazione montiana si tempera senza perdersi del tutto, piuttosto alleggerendosi in un gusto di forme floride, ma piú sottili e sorridenti, in una degustazione di bei nomi e di definizioni classiche[11], di paragoni piú raffinati e piú lucidi, piú disegnati[12]. Né d’altra parte si dimentichi come, in questo impasto di neoclassicismo con forme piú aggraziate e colorite, a volte si avverta, piú che la fusione, la mescolanza e la giustapposizione, come, ad esempio, nel caso del discorso di Mnemosine in cui tipiche forme del linguaggio neoclassico ispirate agli ideali di purezza, pudore, intima misura, come l’aggettivo tematico «verecondo», si incontrano con forme troppo colorite come «rubicondo»[13].

La Musogonia implicava comunque un’adesione sempre maggiore ai motivi e ai temi generali del neoclassicismo e una posizione di evasione nel regno se non della creazione, della illustrazione e degustazione dei bei miti perfetti e lontani dalla realtà contemporanea, da quella realtà difficile, pericolosa e pure affascinante che in quegli anni imponeva impegni in decisioni estreme e senza equivoci.

Le idee della «pacifica filosofia sicura» si erano trasformate in rivoluzione e in guerra ed era difficile ora andar d’accordo con tutti, congiungere religione e filosofia, ossequi ai re e omaggi alla scienza progressiva. D’altra parte occorre dire che nel ’93 in Italia (e specialmente a Roma, dove la classe dominante e i ceti popolari piú bassi concordavano in un sostanziale misoneismo), fra l’orrore suscitato dal «Terrore» e dal «regicidio» e il sussulto di vago nazionalismo al primo affacciarsi delle armate francesi alle Alpi, si produsse indubbiamente un atteggiamento dominante antifrancese che accomunò (a parte alcuni gruppi piú decisamente «democratici» che andran poi aumentando fortemente quando i francesi scesero effettivamente in Italia nel ’96, e in Francia al posto della Convenzione governava il Direttorio) i veri e propri reazionari per ragioni ideologiche e sociali e uomini che inizialmente avevano accolto con entusiasmo la rivoluzione francese finché essa era apparsa legalitaria e orientata verso le forme di una monarchia all’inglese, e che poi, per complessi motivi, avevano reagito spesso violentemente contro il Terrore e la guerra rivoluzionaria, magari in nome della libertà tradita come nel caso dell’Alfieri.

Da questa ondata di sdegno fu investito a un certo punto il Monti (molto incerto e cauto agli inizi della rivoluzione) ed egli abbandonava di colpo la Musogonia e la posizione del poeta distaccato nel regno dei bei miti, e sentiva in quella lotta grandiosa (e in quel momento vittoriosa!: solo piú tardi vennero le sconfitte e quindi l’interruzione della Bassvilliana) della coalizione idealmente guidata dal Vaticano contro la rivoluzione francese, in quell’entusiasmo e in quello sdegno, uno stimolo irresistibile e un’occasione senza pari per la sua aspirazione a divenire vate di avvenimenti grandiosi e «vate non imbelle» come diceva nella saffica alla Bandettini.

Piú tardi, nel ’97, in una celebre lettera al Salfi, per scusarsi di quel poema che tanto lo ostacolava nella sua nuova carriera di poeta della repubblica cisalpina, il Monti chiamerà la Bassvilliana «miserabile rapsodia» scritta per paura e per sottrarsi alle persecuzioni che potevano essergli causate dalla sua amicizia per il Bassville (è la stessa tesi sostenuta nel pometto del ’97, La superstizione): scuse misere e certo lontane sostanzialmente dalla verità. Perché la Bassvilliana non fu un’opera comandata e composta a freddo, nacque su di una base di entusiasmo, anche se particolarmente torbido, complicato dall’ambizione montiana a farsi vate di un avvenimento cosí grandioso e quanto mai disposto ad un’efficacia oratoria, ad una concitazione immaginosa, eloquente, che solo in alcune pagine si risolve in quadri veramente intensi, mentre nell’insieme del poema è possibile trovare versi, terzine, immagini isolatamente suggestivi, ma per lo piú in mezzo a contesti farraginosi e roboanti, in una continua e torbida tensione ad un sublime tutto spettacolare e fragoroso.

Era un ritorno, anche se con altra maturità, ai modi piú enfatici e grandiosi delle visioni giovanili, e il Monti con un brusco scatto abbandonava miti greci e moduli della poesia neoclassica per ritornare alle personificazioni, alle ombre, agli angeli, ai miti cattolici delle visioni, alla loro scenografia piú baroccheggiante, e quindi anche ai vecchi modelli della Bibbia, del Varano, di Klopstock e Milton, con un piú intenso ricorso alla Divina Commedia, dalla quale il Monti riprendeva il disegno di un viaggio oltretomba, molteplici procedimenti strutturali e, a larghe mani, atteggiamenti di figure, impostazioni di parlate, paragoni e particolari di linguaggio. Donde derivò l’equivoco del nuovo Dante e del «Dante ringentilito» (definizione del Torti divenuta subito famosa e accettata, tutto sommato, dallo stesso Monti) che fu uno dei motivi dello strepitoso successo del poema, nel nuovo interesse per Dante, a cui indubbiamente la Bassvilliana contribuí fortemente, avviando (ed è uno dei tanti contributi ed avviamenti, seppure equivoci e confusi, del Monti rispetto all’Ottocento) quello che diverrà, con ben diverse ragioni spirituali e critiche, il culto di Dante, nel Foscolo e nei romantici.

Quella poesia eloquente e fortemente colorita, piena di immagini grandiose e di echi danteschi e biblici, era ben fatta per colpire e scuotere la fantasia dei contemporanei assetati di «sublime» e pervasi dai sentimenti di sdegno, di orrore, di entusiasmo che in quel poema erano espressi con tanta sontuosa abbondanza, con un impeto in cui essi non distinguevano, nel calore stesso della loro passione[14], quanto vi era di pratico, di retorico, di corrispondente solo a un moto di passione collettiva, di “emozionante” nello stesso soggetto trattato e cosí adatto a commuovere l’opinione antifrancese[15].

Ben diversa evidentemente la situazione di un lettore ormai del tutto distaccato da quelle condizioni storiche e dal gusto equivoco del sublime e del grandioso dell’ultimo Settecento e di fronte al quale quell’entusiasmo rivela le sue prevalenti componenti pratiche e oratorie; e che può fermarsi invece con maggiore interesse su particolari effetti dell’abilità artistica montiana, isolando magari (secondo la lettura frammentistica dell’Angelini, ad esempio) «punti incantati», visioni celesti, soffuse di un magico alone lunare, voli di angeli mesti e turbati, immagini di paesaggio notturno.

Ma in realtà, come ho già accennato, si possono trovare – entro un poema che nel suo insieme è una delle opere piú caduche e legate ad una situazione di sentimento e di passioni contingenti, che ci urta con il suo eccesso di eloquenza e di spettacolarità – intere zone piú convincenti, zone in cui l’entusiasmo si svolge nella sua componente piú intensa e salda, la ricerca di visione spettacolare si cambia in una rappresentazione organica e commossa, l’orrore tante volte fastidiosamente eccitato con espedienti retorici e macchinosi vive realmente in una gradazione piú intima, scaturisce dalla stessa rappresentazione attenta ed intensa, sviluppata in un ritmo crescente di interesse poetico-narrativo. È il caso soprattutto, nel secondo canto (del resto in genere il migliore del poema), della rappresentazione dell’esecuzione di Luigi XVI. Già all’inizio del canto, intorno alle figure del Bassville e dell’angelo che lo guida (nel primo canto lo aveva condotto da Roma alla Francia al di sopra del Tirreno, della Liguria e del Piemonte, e il Monti aveva avuto modo di esaltare la prima resistenza contro i francesi di città italiane con definizioni epiche che poterono colpire il Carducci: «ed Oneglia che ancor combatte e fuma»[16]) si vien creando un’atmosfera di presentimenti angosciosi nella cupa attesa della visione di orrore che li attende e che par comunicarsi a paesaggi che attraversano: «Non stormiva una fronda alla foresta; / e sol s’udia tra’ sassi il rio lagnarsi, / siccome all’appressar della tempesta». Poi, dopo un brano in cui prevale il gusto fastidioso di personificazioni delle scellerate passioni che dominano in Parigi, si apre la parte centrale e piú vigorosa del canto: la rappresentazione delle vie deserte e silenziose della città nel mattino del regicidio.

Muto de’ bronzi il sacro squillo, e mute

l’opre del giorno, e muto lo stridore

dell’aspre incudi e delle seghe argute.

Su questa impressione di «orrendo silenzio» eccezionale, ottenuta con la ripetizione dell’aggettivo «muto» e la presenza insieme rievocata e negata di rumori della vita cittadina, si svolge poi, con una intensa efficacia, con un crescendo graduato e continuo di suoni, di movimento, di figure[17], la rappresentazione nelle vie di Parigi quando le donne inorridite tentano di ostacolare l’uscita dei mariti che voglion partecipare alla esecuzione del re:

Sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,

un domandare, un sogguardar sospetto,

una mestizia che ti piomba al core;

e cupe voci di confuso affetto,

voci di madri pie che gl’innocenti

figli si serran trepidando al petto,

voci di spose che ai mariti ardenti

contrastano l’uscita e su le soglie

fan di lagrime intoppo e di lamenti.

E si noti il risultato vivo e intero del linguaggio che traduce coerentemente con forme piú immediate, quasi narrative, gesti e movimenti realisticamente còlti, su di una direzione che giustamente interesserà per la loro poesia e per la loro prosa i romantici come Berchet e lo stesso Manzoni, che risentí l’efficacia di questa rappresentazione in una pagina della descrizione dei moti di Milano.

Poi il movimento si espande e si intensifica in una scena di scatenata furia, di truce e sanguinaria violenza eccitata da orrendi fantasmi, i Druidi, da una forza demoniaca e disumana: scena in cui compaiono precedentemente piú ad effetto, ma con un risultato ancora fortemente suggestivo e legato a quella commozione, a quell’orrore che in queste pagine ha trovato i suoi toni piú veri meno retorici ed esteriori.

Le ombre degli antichi sacerdoti Druidi, ancora assetati di sacrifici umani, corrono di porta in porta e con tizzoni e con flagelli di serpi «percotean le schiene / e le fronti mortali e fean toccando / con gli arsi tizzi, ribollir le vene». E da questo affaccendamento nefando, nella cui rappresentazione l’immaginazione montiana si immerge intensamente colorandola di tinte fosche di orrore («erano in veste d’uman sangue rossa; / sangue e tabe grondava ogni capello, / e ne cadea una pioggia ad ogni scossa»), nasce l’ultimo quadro movimentato della folla che accorre verso la piazza della ghigliottina:

Allora dalle case infurïando

uscia la gente, e si fuggia smarrita

da tutti i petti la pietade in bando.

Allor trema la terra oppressa e trita

da cavalli da rote e da pedoni,

e ne mormora l’aria sbigottita.

Piú esteriormente grandiosa è invece la diretta rappresentazione della morte di Luigi XVI, appesantita dalla prolissa descrizione delle ombre dei regicidi che presiedono all’esecuzione.

Non mancano anche negli altri canti (comunque piú nel IV che nel III, che troppo indugia nella polemica contro gli illuministi e i giansenisti, padri della rivoluzione) passi piú intensi ed efficaci, ma certo il passo su cui ci siamo fermati può meglio di ogni altro indicare come, nel generale e torbido entusiasmo che anima il poema, potesse pure svilupparsi un componimento piú vivo che, pur non traducendosi in vera e grande poesia, ha risultati di grande interesse e giustifica l’attenzione, piú che dei contemporanei, dei romantici, e dimostra l’importanza che il Monti ha, anche con questo aspetto della sua opera, nella storia della letteratura, nel passaggio fra Settecento e Ottocento.

Il Monti pensava, in relazione alla piega presa dalle vicende belliche nella primavera del ’93, di continuare la sua cantica con la rappresentazione della vittoria dell’Europa antirivoluzionaria sulle armate francesi e con la definitiva ascesa in cielo di Bassville redento. Ma le cose poi andarono altrimenti, e, crollata la base di entusiasmo su cui era nata la Bassvilliana, il poeta del successo non ebbe piú la forza di proseguire nella sua opera. Per un po’ di tempo pensò (lo dice in una lettera al Torti del 12 febbraio ’94[18]) di «conciliare tutto, purché si volesse permettere il libero linguaggio della verità e della religione, non della religione dei nostri preti, ma di Isaia e di Ezechiele, i quali peroravano la causa di Dio predicando sempre flagelli e castighi e tribolazioni; a chi? al popolo circonciso», di cantar cioè gli avvenimenti ora avversi ai coalizzati e al papato come dovuti alle colpe e agli errori di questi. Ma si trattava di una escogitazione artificiosa e di fatto egli tacque per un lunghissimo periodo, durante il quale può interessarci solo accennare (sulla scorta delle lettere) alla maniera fra abile e ingenua con cui il Monti venne a poco a poco «convertendosi» alle idee che aveva cosí impetuosamente combattuto, aprendosi insieme la strada ad una nuova sistemazione pratica e ad un nuovo «entusiasmo».

Prima cercò di rifugiarsi nella concezione del poeta non responsabile di ciò che canta[19], ma solo di come canta (in una lettera del 23 novembre ’93[20] al Gargallo diceva che, se i versi sono buoni, «la posterità li vedrà, qualunque sia il partito del poeta», e che «nessuno sicuramente si porrà a studiare l’Ariosto per divenire repubblicano, né Omero per farsi cattolico»), ma poi, pur salendo di quando in quando ad un sentimento piú consono alla sua tendenza di poeta dei bei miti e dei bei carmi, ad una aspirazione alla pace in cui i poeti non devono contaminarsi con l’esaltazione del sangue e della strage (v. la lettera del 26 marzo 1796[21] al Galeani Napione: «fuori della battaglia di Achille e di Enea, tutte le altre a me vicine mi cagionano sdegno e malinconia»), egli operò una lenta conversione verso il fascino nuovo della rivoluzione vittoriosa, passando dagli sdegni contro gli «assassini di Francia» ad una specie di equilibrata condotta, con uguale giudizio, «degli assassini di Francia» e dei «fanatici dei sette colli» (v. lettera del 2 agosto 1794[22] al fratello Cesare) e poi ad una preferenza dei francesi (non piú «assassini») rispetto ai «fanatici» sanfedisti (v. lettera del 14 maggio 1796[23] al fratello Francesco Antonio).

Motivi pratici di opportunismo («la situazione del papa e di tutto lo stato è sommamente critica ed è pazzo chi non cerca di salvarsi», «la prudenza è la prima virtú», scrive ai fratelli nella primavera del ’96) si mescolano ad una progressiva ammirazione (non insincera se si pensa al fondo piuttosto fanciullesco dell’animo montiano, alla sua scarsa sicurezza ideale, alla sua confusa e incerta base di idee) per gli ideali di libertà e di progresso, per l’eroismo dei soldati francesi e del loro giovane condottiero in Italia, di fronte ai quali ben poco fascino potevano ispirare le ridicole truppe papaline battute ingloriosamente ai primi scontri.

A poco a poco la tavola dei valori si capovolge rispetto alla Bassviliana: Babilonia non sarà piú Parigi, ma la corrotta e incapace Roma papale, le Madonne piangenti e sospiranti, esaltate nel poema, vengono ora derise come strattagemma dei governanti romani per commuovere ed eccitare il popolino superstizioso (v. la lettera del 23 luglio 1796[24] al Torti).

E a un certo punto, tra il fascino delle nuove idee e il rischio non del tutto immaginario di essere esposto ai risentimenti popolari a causa della sua sempre maggiore familiarità con gli ufficiali francesi in missione a Roma, il Monti si decise, e il 3 marzo 1797 fuggí da Roma nella carrozza del generale Marmont verso le regioni italiane già direttamente presidiate dalle truppe francesi.

Con l’arrivo nell’Italia settentrionale il Monti riprese l’attività letteraria, praticamente interrotta dopo la Musogonia e la Bassvilliana.

Di scarsissimo interesse letterario sono i due poemetti (Il fanatismo, La superstizione) che il Monti stesso chiamò «riparatori» e che vennero infatti concepiti per «riparare», per espiare gli errori della Bassvilliana[25], esaltando le nuove idee e polemizzando contro fanatismo e superstizione, naturalmente personificati allo stesso modo con cui aveva personificato la licenza e l’irreligiosità nel poema ora incriminato.

Misere composizioni (la seconda è poi complicata da un romanzetto in forma di visione in cui il Monti fa intervenire l’ombra del Bassville, presentato come suo amico strettissimo, a scongiurarlo di sfuggire all’ira sacerdotale che lo avrebbe perseguitato: e poiché il Monti non poteva fuggire se non lasciando moglie e figlia esposte a pericoli, dové adattarsi a scrivere la Bassvilliana!), come del tutto esteriore e scritto sol come «captatio benevolentiae» l’altro poemetto del ’97, Il pericolo, che narra il pericolo rappresentato dalle turbolenze parigine del settembre per la libertà e la forza francese per la quale in Italia cosí gloriosamente combatte Napoleone.

Piú interessanti e vivaci quegli «inni» repubblicani (a parte l’esagerato elogio del Carducci, tratto in inganno da motivi contenutistici), scritti fra il 1797 e il 1798, che possono rappresentare l’espressione piú fresca del nuovo entusiasmo montiano, il quale, dopo la «riparazione» dei poemetti, sgorga nuovamente in forme francamente piacevoli e facili, con andamento di coro festoso e squillante, veloce, in cui ancora una volta – sebbene in maniera piú superficiale di quanto avvenne nell’Ode al signore di Montgolfier e di quanto avverrà nell’ode per la liberazione dell’Italia – l’immaginosità montiana è come contenuta e fatta scattare con moti piú incisivi e brillanti, appunto dalla velocità e agilità del ritmo fervido e festoso. Come avviene nell’inno per «la rassegna di sessanta ussari cisalpini» o in quello per la pace di Campoformio[26], in cui certi quadretti rapidi e pur suggestivi, con brevi ed efficaci moti psicologici tradotti in azioni evidenti e nitide, fanno ancora una volta pensare ad offerte del Monti al gusto di certa poesia romantica:

Delle madri dolorose

sono i palpiti sospesi,

tace il pianto delle spose,

spunta il riso lusinghier:

e sul petto al salvo figlio

cerca il padre la ferita,

e superbo altrui l’addita

lagrimando di piacer...

E il villano al foco assiso

mentre il vento intorno stride,

su le stragi che già vide

fa gli amici impallidir.

Esperienze facili e felici specie nei metri adatti, veloci e brevi (piú discutibile mi pare il risultato della contemporanea canzone Per il congresso di Udine con la sua esperienza petrarchesca di un’eloquenza piú compassata e solenne), che tendono al vero e proprio inno cantato, quale quello per il 21 gennaio 1799, anniversario della morte di Luigi XVI, che, disgustoso da un punto di vista morale (il re «innocente» e paragonato al Cristo nella Bassvilliana è divenuto il tiranno, il «vile Capeto»), ha una sua fresca forza di coro esultante ed energico, espressione di un entusiasmo collettivo a cui lo scrittore dà voce con il suo piglio facile e impetuoso, con la sua colorita vivacità (e ancora una volta, nella identità del metro, un presentimento formale di celebri versi romantici: «Cittadini che all’armi volate, / in quel sangue le spade bagnate: / la vittoria ne’ bellici affanni / sta sul brando che i regi ferí»).

Certo ben maggiore è l’impegno del poema incompiuto del ’97, il Prometeo, in cui, in certo modo, sembrerebbero congiungersi la tendenza del mitografo neoclassico e quella del cantore degli avvenimenti contemporanei, sulla ripresa piú impegnativa del piano non realizzato nella Musogonia: mito simbolico della storia della civiltà umana, ora vòlto in significato «repubblicano» di storia della libertà e del progresso. Il Monti tenta di fondere mito antico e significati contemporanei, di cantare il suo nuovo entusiasmo per la libertà, per la vittoria dello spirito libero sulla tirannide, sulla superstizione, sul fanatismo, e addirittura per il «liberatore» Napoleone (nello stesso tempo il giovanissimo Foscolo scriveva l’Ode a Napoleone Bonaparte liberatore), mediante il mito simbolico di Prometeo liberatore degli uomini dalla tirannia di Giove e promotore di civiltà.

Si trattava, (a parte gli elementi piú pratici e di nuova «cortigianeria» repubblicana[27] che del resto si confondono in maniera mal dissociabile con elementi di sincero entusiasmo per idee a cui il Monti aveva ormai aderito pienamente) di un impegno ambizioso e superiore alle effettive possibilità del poeta, che non aveva la potenza intellettuale-fantastica necessaria alla creazione di un mito simbolico che avrebbe dovuto esprimere una centrale, unitaria intuizione della vita (e si pensi al Prometeo di uno Shelley, alla grande mitografia simbolica dei romantici) che al Monti mancava. Donde a un certo punto (a parte le difficoltà pratiche che occuparono il Monti nel ’98-99 e lo distolsero dal lavoro piú impegnativo) una svogliatezza che provocò l’interruzione del poema – che doveva essere di otto canti – all’inizio del quarto[28], nella sensazione di una crescente difficoltà nello sviluppo del suo disegno.

Tuttavia, anche se al Monti manca la potenza creativa di nuovi miti che hanno un Foscolo o uno Shelley, questa sua aspirazione nel Prometeo ad una via piú ardua di quella della Musogonia, ad una poesia neoclassica[29] piú impegnativa, o piú seria ed ambiziosa (non la degustazione dei miti classici, ma l’entusiastica interpretazione di un loro significato grandioso, umano e civile), costituisce un elemento di tensione, ibrida e insufficiente a realizzarsi in vera e grande poesia, incapace di raggiungere le alte mète cui è diretta (come un gesto possente che ricade, una voce che s’alza piena e poi s’incrina e si sfa in accenti piú deboli e vaghi) e pure non priva di un suo fascino, di una suggestione che tanto poté colpire il Foscolo, stimolarne la ben diversa forza realizzatrice. Sicché questo singolare poema, in cui il Monti fece uno dei suoi tentativi piú impegnativi di una propria poesia neoclassica «sublime»[30], prima di trovare i suoi risultati piú coerenti nella traduzione-ricreazione dell’Iliade e nel neoclassicismo piú temperato, narrativo e sommesso della Feroniade, ci appare come una serie di impeti non conclusi, di aperture grandiose non sviluppate, di toni alti e manchevoli, e vi circola un fervore piú promettente che realizzato, vi affiora quasi l’ombra di una grande poesia mancata, lo spunto di qualcosa a cui il Monti tendeva, ma che non poteva compiere. E che, in una storia piú di poetica che di poesia, sembra poi chiedere la forza di un’ispirazione autentica di grande poeta, quale fu quella del Foscolo[31], sembra avviare un discorso poetico alto da affidare ad altri, collaborare alla nascita di impostazioni poetiche sviluppate da altri.

Da tale punto di vista anche una inevitabile lettura antologica del Prometeo pare piú giusta nella direzione delle aperture, degli avvii piú impetuosi e intensi (là dove il Monti sembra tendere a qualcosa di superiore, di piú alto e grande), che non in quella dei particolari raffinati, dei versi perfetti e incantati, anche se una parte cospicua e interessante del poema è poi costituita su di un’altra linea, di brevi figurazioni mitiche intonate all’aspirazione neoclassica alla nobile semplicità, ad un senso edonistico e luminoso di affascinanti movimenti di grazia serena in cui, rispetto alla Musogonia, il Monti ha raggiunto una mano ancor piú sicura e nitida, ha ridotto sempre piú i residui rococò e leziosi, in una direzione di affinamento stilistico, che avrà uno svolgimento ulteriore e piú continuo nel periodo della definitiva, esclusiva accettazione del gusto neoclassico (dal 1807 in poi[32]).

Ma, ripeto, la linea piú caratteristica e dominante nel Prometeo è quella della tensione ad una solennità sublime, ad un grandioso neoclassico, al mito simbolico incentrato nei gesti, nelle parlate liriche di Prometeo, il personaggio in cui il Monti si impegnò con una particolare aspirazione di complessità: il titano dolente ed eroico, animato dall’odio per la divinità che lo limita, ansioso di una civiltà umana libera e potente e insieme venato di pessimismo e di un senso compassionevole per la misera sorte degli uomini carichi di passioni impure, di istinti fratricidi che ostacolano il loro progresso. Un abbozzo vigoroso piú che una figura compiuta, cosí come abbozzi e spunti di una poesia superiore sono le rappresentazioni delle sue azioni e le sue parlate profetiche, svolte in sequenze di endecasillabi sciolti, atteggiate in forme complesse e ascendenti, mosse da un’ansia di sublimità eroica e dolente, efficace e suggestiva, anche se sempre ibrida fra poesia ed eloquenza. Si legga nella parte iniziale del primo canto (vv. 32-50) la figurazione del titano incatenato sulle rupi del Caucaso:

E già sull’erto Caucaso mi chiama

de’ liberi miei carmi desïoso

il solitario Prometéo, che, seco

le rie vicende nel pensier volgendo

di sua stirpe infelice, e l’ire ancora

del superbo oppressor temendo accese

(ché nel cor dei potenti a lunga prova

ratto nasce lo sdegno e tardo muore),

su quell’orride balze sconosciuti

tragge misero eroe giorni dolenti:

se non che, quando sotto il sacro velo

delle tranquille tenebre notturne

tace del biondo Ipperïon la luce,

ei, sovra il sommo della rupe assiso,

delle stelle che son lingua del fato

alle armoniche danze il guardo intende;

e, con lor ragionando, i vaghi errori

co’ numeri ne frena e le fatiche,

primo degli astri assalitor felice.

O si legga nel vaticinio della sorte degli uomini, sempre nel canto primo (vv. 520-545), l’invettiva di Prometeo contro la guerra:

Oh Marte! oh guerra! orribil mostro, nato

(chi ’l crederia?) nel cielo; ove d’Olimpo

i cardini scuotesti, e colla tua

sanguigna face vïolasti il puro

delle vergini stelle almo candore

e le prime saette in man ponesti

contro Saturno di Saturno al figlio;

oh guerra! o delle Furie la piú ria,

la piú ria delle Furie e la piú antica!

Al tremendo tuo nome il ciel si turba

per la memoria della prisca offesa,

e sbigottita palpita natura.

D’amor di caritate i santi nodi

tu rompesti primiera, e contro i padri

i figli armasti ambizïosi e crudi,

e i fratelli azzuffasti co’ fratelli.

Le sitibonde glebe a ber sol use

le lagrime dell’alba tu con altre

stille disseti, e con allegro piede

squarciate membra calpestando e bocche

spiranti e petti palpitanti ancora

in tiepida di sangue atra laguna,

con fiera gioia a quell’orror sorridi,

crudele! e l’inno di vittoria intuoni;

mentre sulla tua gota a calde gocce

gronda sangue l’allòr che ti corona.

O si pensi ad altri brani in cui ricorrono temi e persino versi ripresi dal Foscolo: e la scelta dal Foscolo nelle sue riprese è assai indicativa delle parti del Prometeo che piú offrivano, nella tensione al grandioso neoclassicismo, efficaci spunti, motivi di quella singolare collaborazione del Monti ad una poesia che, salendo da ragioni generali del gusto e della spiritualità dell’epoca neoclassica, trovavano nel Monti un avvio piú incerto e retorico, nel Foscolo un’originale personale espressione. Cosí certe parlate alle stelle, nel canto secondo, cosí, nel canto terzo, il vaticinio della guerra di Troia (vv. 156-177) che tanto dové sollecitare la fantasia foscoliana offrendole spunti di temi e di scene, di cadenze:

Nudo allora e diserto era quel lido

e inonorato: ma di forti eroi,

che di sangue bagnâr l’iliaca terra,

gli dièr le tombe sempiterna fama,

quando di Grecia il fior quando de’ numi

gl’incliti figli in riva al mar coperse

polvere poca ed una rozza pietra.

Quindi grido suonò, che maestose

or sul dorso de’ turbini e dell’onde

or sulle penne di notturne aurette

lunghesso il mar vagando e trasvolando

van quell’ombre divine e dei passati

illustri affanni ragionando insieme:

l’ombre, io dico, d’Aiace e di Pelide

e dell’amico di Pelide, e quella

di Palamede che dell’empia frode

d’Ulisse ancora si lamenta e freme.

Ma romito in disparte e sospirando

va d’Ettore lo spettro insanguinato,

che il cener freddo delle patrie mura

colle mani pur tenta e de’ suoi baci

e del suo pianto lo riscalda ancora.

Sono evidenti in questi stessi brani e in altri simili – che fanno spicco (insieme a figure e quadri mitici piú pacati, nitidi ed agili cui abbiamo accennato, e che indicano una linea meno vistosa e tesa, piú vicina alla descrizione dei bei miti della Musogonia e corrispondono a un disegno piú attento e gustato, piú fine, importante nello sviluppo neoclassico del Monti piú tardo: e la stessa diversità di queste due linee dimostra sempre la scarsa unità del Monti) in mezzo a zone piú grigie ed opache che rendono faticosa una lettura continuata del Prometeo – quelle cadute piú approssimative e generiche (a volte vere e proprie zeppe) che son prova di un gusto non perfetto, di una fusione stilistica non pienamente raggiunta (e sempre con pericoli di colore eccessivo, di immaginazione turgida e imprecisa) e, piú in profondo, di un’ispirazione torbida, radicalmente ibrida nel suo volgere all’eloquenza. Ed è chiaro che non di grande poesia si può parlare, ma solo di una singolare tensione poetico-oratoria che nel Prometeo compie un particolare sforzo, tenta temi e toni alti, si impegna in una creazione di miti simbolici complessi e “sublimi” nella direzione di un neoclassicismo grandioso ed eroico. Tentativo inevitabilmente fallito e tuttavia interessante nella storia della poetica neoclassica e nella storia delle esperienze montiane, e come estrema precisazione di una tendenza che troverà la sua vera realizzazione quando il Monti potrà svilupparla sull’appoggio sostanzioso e sicuro del testo veramente epico dell’Iliade omerica.


1 Epistolario cit., I, p. 328.

2 Anche nelle lettere (documento cosí interessante non solo per la conoscenza delle relazioni letterarie del Monti, delle sue reazioni agli avvenimenti, ma per quella dell’uomo, fragile, mutevole, poco profondo e pur vivo e diverso da un semplice letterato pedantesco e libresco) si può notare come in questi anni, accanto agli atteggiamenti patetici e alla prosa enfatica e languida di tipo preromantico, si precisino atteggiamenti vivaci e spregiudicati e una prosa spigliata e fresca, insaporita – pur nella sua attentissima cura letteraria – da elementi realistici, dalla presenza di cose e di elementi di paesaggio piú immediata e tradotta da un’originale capacità espressiva e in una forma piú moderna. Si vedano in proposito alcune lettere dell’85 a Clementina Ferretti, amica del Monti, notevoli per quanto ho detto e per certi atteggiamenti spregiudicati e “libertini” del Monti, poeta ufficiale del Vaticano, ma non bigotto, e già in questi anni (la stessa amicizia col Chigi, âme sensible, ma anche e piú esprit fort, aperto alle idee illuministiche, poté influire in tal senso) pronto ad orecchiare seppur cautamente le nuove idee anticattoliche. Particolarmente citabile la lettera dell’85 (Epistolario cit., I, p. 264): «Mi alzo in questo punto, e sono le dodici. Ho messo il capo fuori della finestra ed ho salutato il sole che scappa dal Colosseo, e va scacciando la nebbia che gli manda incontro quest’orto, come un incenso. E sembra veramente tale, perché è tutta impregnata dell’odore di prezzemolo, di salvia e d’insalatina, che sono la ricchezza di quest’orto; confusi con una gran moltitudine di broccoli e di carciofi che crescono colla benedizione del sole e di S. Francesco, e sono il primo fondamento della enorme vegetazione di questi frati [il Monti faceva gli esercizi spirituali di Pasqua insieme al Braschi]. Il divertimento piú bello però è un’orchestra di allegri uccelletti (essi godono la protezione dei zoccolanti), i quali rispondono di qua e di là con una dissonanza gratissima. Questo solo piacere merita bene il fastidio di quattro giorni di ritiro. Veniteci anche voi, e staremo allegramente, e impareremo delle belle cose da questi uccelletti. Odo che il padrone s’alza ancor esso in questo momento. Mi dò una spruzzata di polvere sul capo, mi metto le scarpe, e vo a dargli il ben levato. Dopo si scende a far del bene (non so ancora in che modo) e a meditar sull’inferno, che Dio ne scampi tutti, specialmente me, e voi, e i nostri amici, ecc., ecc. P.S. Dite a vostra moglie, cioè a vostro marito che tenga preparato l’istrumento da lavativi, perché appena entrato qui mi si sono svegliate le emorroidi». E anche questa mossa umoristica e volgarmente efficace fa pensare ad una disposizione al comico che poi si preciserà soprattutto nella versione della Pucelle e in certe parti polemiche-umoristiche della Proposta. V. anche le lettere alla Ferretti e al marito pure dell’85 nel I vol. dell’Epistolario, pp. 265-273.

3 Come risulta dalle lettere dell’88 (19-23 aprile) al Bodoni, il Monti leggeva Tasso, Dante, la biografia tassesca del Serassi («la vita del povero Tasso»), e la lettura di questa chiamava il suo «conforto» (Epistolario cit., I, p. 331), indicando come l’elogio della bella poesia si associasse nella genesi dell’epistola ad una sentimentale partecipazione alla vita dei poeti, alle loro vicende infelici. Elemento elegiaco che cosí delicatamente vibra nell’intonazione di idillio e di gentile entusiasmo dell’Epistola.

4 Che è anche (secondo un modulo di «poesia letteraria» che sarà ripreso con varia altezza dal Foscolo, specie nel secondo inno delle Grazie, pieno di rievocazioni di poeti – e già nei Sepolcri: Parini, Alfieri ecc. –) una forma di rievocazione di modi della poesia dantesca, entro un’atmosfera neoclassica e con vibrazioni elegiache preromantiche: «del gran padre Alighier ti risovvenga, / quando, ramingo dalla patria e caldo / d’ira e di bile ghibellina il petto, / per l’itale vagò guaste contrade / fuggendo il vincitor guelfo crudele, / simile ad uom che va di porta in porta / accattando la vita. Il fato avverso / stette contra il gran vate, e contra il fato / Morello Malaspina. Egli all’illustre / esul fu scudo: liberal l’accolse / l’amistà sulle soglie; e il venerando / ghibellino parea Giove nascoso / nella casa di Pelope. Venute / le fanciulle di Pindo eran con esso, / l’itala poesia bambina ancora / seco traendo, che gigante e diva / si fé di tanto precettore al fianco; / poiché un nume gli avea fra le tempeste / fatto quest’ozio. Risonò il castello / dei cantici divini, e il nome ancora / del sublime cantor serba la torre. / Fama è ch’ivi talor melodïoso / errar s’oda uno spirto, ed empia tutto / di riverenza e d’orror sacro il loco. / Del vate è quella la magnanim’ombra, / che tratta dal desio del nido antico, / viene i silenzi a visitarne; e grata / dell’ospite pietoso alla memoria, / de’ nipoti nel cor dolce e segreto / l’amor tramanda delle sante Muse» (vv. 26-55).

5 «Ombra diletta / che sei sovente di mie notti il sogno, / e pietosa a posarti in su la sponda / vieni del letto ov’io sospiro, e vedi / di che lacrime amare io pianga ancora / la tua partita; se laggiú ne’ campi / del pacifico Eliso, ove tranquillo / godi il piacer della seconda vita, / se colà giunge il mio pregar, né troppo / s’alza su l’ali il buon desio, Torquato / per me saluta, e digli il lungo amore / con che sculsi per lui questa novella / di tipi leggiadria; digli in che scelte / forme piú care al cupid’occhio offerti / i lai del suo pastor fan dolce invito; / digli il bel nome che gli adorna, e cresce / alle carte splendor. Certo di gioia / a quel divino rideran le luci, / ed Anna Malaspina andrà per l’ombre / ripetendo d’Eliso, e fia che dica: / – perché non l’ebbe il secol mio! memoria / non sonerebbe sí dolente al mondo / di mie tante sventure. E, se domato / non avessi il livor (ché tal nemico / mai non si doma, né Maron lo vinse / né il Meonio cantor), non tutti almeno / chiusi a pietade avrei trovato i petti. / Stata ella fôra tutelar mio nume / la parmense eroina; e di mia vita, / ch’ebbe dall’opre del felice ingegno / sí lieta aurora e splendido meriggio, / non forse avrebbe la crudel fortuna / né Amor tiranno in negre ombre ravvolto / l’inonorato e torbido tramonto» (vv. 97-130).

6 Era stato iniziato nel ’93 con un disegno che può far pensare al disegno del primo inno delle Grazie foscoliane, ma fu interrotto a causa della Bassvilliana e il Monti rifiutò nelle edizioni successive quel primo brano. Quanto al finale «rivoluzionario» accennato nell’Avvertimento, va ricordato che nell’edizione veneziana del ’97 il Monti pose, alla fine del primo canto, un elogio di Napoleone liberatore d’Italia, mentre nell’edizione romana del ’93 c’era un elogio dell’imperatore d’Austria difensore dell’Italia contro i francesi. Poi nel 1826 il Monti tolse tutti e due i passi legati a vicende del tempo e li sostituí con pochi versi di elogio della poesia. Il Carducci accolse nella sua edizione il passo «napoleonico», ma piú giusto sarebbe accettare la volontà ultima del poeta, piú coerente del resto alla concezione piú spontanea del poemetto sulla nascita delle Muse.

7 Canti e poemi cit., I, p. 264.

8 La predilezione del Foscolo per questo poemetto può essere spiegata (come in altri casi della poesia montiana) dalla suggestione esercitata su di lui da certi brani e toni che piú esternamente fan pensare a certi atteggiamenti e moduli delle Grazie, nel loro margine piú “grazioso” e di degustazione classicista, di figuratività piú colorita.

9 Richiami evidenti delle Stanze sono frequentissimi nella Musogonia: impostazioni di figure (Mnemosine è lodata dall’innamorato Giove come Simonetta da Julo), note di paesaggio e ritorni di parole.

10 Si guardi, ad esempio, l’ottava 33ª, in cui la descrizione della zona alta del cielo abitata dagli dèi e circondata da turbini e tempeste (ma anche da «zefiri che l’ali han di farfalle») si risolve in note chiaramente fiabesche: «ivi i palagi del tonante sono, / ivi le rôcche tutte d’oro e il trono». E certe scene di sbigottimento cosmico (una delle note certo piú tipiche del Monti) hanno perduto il loro tono piú energico e vistoso, mentre piú spesso le figurazioni di paesaggio fiorito e primaverile puntano su note di grazia quasi leziosa e chiaramente sorridente: come dove si descrive il loto e il narciso: «ed uno di Morfeo le tempie adombra, / l’altro il crin bianco delle Parche ingombra» (6ª), quando addirittura il tono non si volge ad un’aperta sottolineatura comica, come quando Plutone si fa «smarrito e tremebondo» al rumore della lotta fra cielo e titani «ché le volte di bronzo e i ferrei muri / all’impeto stimò poco sicuri».

11 «Ma come in pria v’invocherò? Tespiadi / dovrò forse nomarvi o Aganippee? / O titolo di caste Elioconiadi / piú vi diletta o di donzelle Ascree? / So che ninfe Castalie e Citeríadi / chiamarvi anco vi piace e Pegasee, / e vostro su le rive di Ippocrene / di Pieridi è il nome di Camene...» (2a), o la strofa 26a («Calliopea che sol co’ forti vive, / ed or ne canta la pietade or l’ira, / Euterpe amante delle doppie pive, / e Polinnia del gesto e della lira; Tersicore che salta e Clio che scrive, / Erato che d’amor dolce sospira; / ed Urania che gode le carole / temprar degli astri ed abitar nel sole»).

12 Ad esempio, questo quadretto-paragone: «in quella guisa / che d’autunno balen squarcia repente / la fosca nube, e con veloce riga / di lucido meandro i nembi irriga» (13a).

13 Certe tracce del primo gusto montiano non scomparvero del resto mai del tutto.

14 I quattro canti uscirono di seguito fra il marzo e l’agosto, attesi con impazienza, e subito ristampati piú volte da diversi editori in varie parti di Italia (in poco tempo ne furon fatte quattordici edizioni). Ben si adattava alla Bassvilliana quanto l’Alfieri avrebbe detto in una conversazione delle poesie montiane: «son come i bocconotti romani» (delle paste fritte) «che piacciono molto quando son caldi, e disgustano quando si sono raffreddati».

15 Come dice il titolo originario, In morte di Ugo Bassville, la cantica prendeva spunto da un avvenimento della cronaca di quei mesi: l’uccisione di Nicola Giuseppe Hugou detto Bassville, emissario francese a Roma, avvenuta a furor di popolo a Roma il 12 gennaio 1793, quando egli aveva sfidato l’ira popolare attraversando il Corso con la coccarda del tricolore repubblicano. Ad accrescere la suggestività dell’avvenimento si aggiunsero la (presunta?) richiesta dei sacramenti da parte del morente e le esequie solenni tributategli dal papa. Sicché il rivoluzionario appariva pentito e convertito e si avviava cosí la sua purificazione e ascesa in cielo a cui il Monti poneva come condizione la visione degli orrori del Terrore e del regicidio.

16 Si capisce qui come il Carducci guardasse al Monti con un interesse personale: quante volte leggendo il Monti sentiamo analogie con modi del Carducci cantore della storia nei suoi aspetti piú eloquenti. Si pensi a Piemonte (non certo il migliore Carducci), alle sue definizioni epico-storiche delle città piemontesi e, d’altra parte, a quel gusto di visione delle anime dei morti del Risorgimento intorno a Carlo Alberto.

17 Qui veramente il Monti realizzava quel suo desiderio di una rappresentazione intensamente e progressivamente “interessante”, al cui scopo egli diceva (nelle note alla Bassvilliana) di aver adottato le terzine perché in quelle, «concatenandosi le idee al pari dei versi ed incalzandosi senza riposo l’una coll’altra, piú si fa strada, piú la mente si trova sollevata riscaldata e rapita» (Canti e poemi cit., I, pp. 169-170).

18 Epistolario cit., I, p. 402.

19 Il Monti non si rese mai conto perfettamente di quell’impegno del poeta in ciò che canta, del nesso fra posizione letteraria e impegno etico–politico, che era la nuova esigenza di un Alfieri o di un Foscolo, e solo rimpianse da vecchio di aver perduto troppo tempo in opere piú occasionali, meno seguendo il suo amore piú puro per le Muse e i bei miti. Ma anche allora nella poesia per l’onomastico della moglie poneva fra i suoi titoli di gloria la Bassvilliana.

20 Epistolario cit., I, p. 392.

21 Epistolario cit., I, p. 426.

22 Epistolario cit., I, p. 408.

23 Epistolario cit., I, p. 432.

24 Epistolario cit., I, p. 440.

25 Malgrado questi e la buona accoglienza fatta alle scuse del Monti da parte del Salfi, potente esponente della massoneria cisalpina, la Bassvilliana ostacolò a lungo il cammino del Monti “repubblicano”: nel ’98 copie della Bassvilliana vennero bruciate in piazza e malgrado la difesa di generosi amici, come il giovane Foscolo, il Monti soffrí numerosi attacchi provocati da alcuni suoi nemici e rivali, come il Gianni e il Lattanzi.

26 Al solito il Monti accoglie la interpretazione piú superficiale e “ufficiale” di quella pace che invece provocava in spiriti pensosi moti di sdegno e di delusione profonda per l’abbandono di Venezia all’Austria e per la spregiudicatezza politica del Bonaparte. E si pensa ovviamente al Foscolo e al suo Ortis.

27 Il Prometeo, «tutta repubblica» doveva mostrare definitivamente il Monti come poeta «libero» (v. lettera al Costabili Containi del 24 marzo 1797) e repubblicano. Si ricordi poi che il neoclassicismo divenne la maniera ufficiale delle repubbliche e dei regni napoleonici.

28 Il frammento del canto IV fu pubblicato solo nell’edizione postuma del 1832. Dopo il ’97 il Monti rivide e corresse il Prometeo, ma senza aggiungervi nulla. Nel 1827 vi tolse alcune parti piú esuberanti e certi paragoni oziosi, secondo una piú chiara ricerca di stile neoclassico, e tolse, al solito, le allusioni piú scoperte ad avvenimenti politici del ’97.

29 II programma neoclassico è ribadito nella «prefazione non inutile», e con parole piú sicure che nell’«avvertimento» della Musogonia: fra i due intenti (il secondo è quello «di meritar bene d’una patria libera, finalmente da uomo libero») il primo è «promuovere (se l’espressione non è troppo superba) l’amore dei Latini e dei Greci, dai quali è molto tempo che ci discostiamo con detrimento sommo della nostra poesia» (Canti e poemi cit., I, p. 386), dove c’è addirittura il rifiuto piú esplicito dei precedenti amori “preromantici”.

30 «Sublime» e grandiosa senza il ricorso dell’armamentario tipico delle visioni.

31 Il Foscolo effettivamente guardò molto al Prometeo e molto spesso nella lettura di questo poema si ha l’impressione di presentimenti foscoliani dei Sepolcri e delle Grazie. C’è anche una singolare storia dei rapporti Monti-Foscolo: il primo sembra agevolare, offrire stimoli al secondo, finché questi non ha raggiunto la sua piena maturità. Poi, a un certo punto, il rapporto si inverte. E non è raro il caso, nella Feroniade e altrove, di echi foscoliani nel Monti.

32 V., ad esempio, la rappresentazione di Mercurio nel canto I (vv. 110-115): «Disse: e Mercurio i bei talàri aperse, / caro dono d’Apollo, onde volando / le preste superava ali de’ venti; / e, della verga da Pluton temuta / agitando le serpi, in un baleno / fra le nubi si spinse, e sparve agli occhi»; o la descrizione dell’isola di Delo errante per il mare (canto III, vv. 399-403 e 412-416): «Navigava per l’onda la divina / cuna d’Apollo. Al suo passar festose / sporgean dall’onde il capo a mano a mano / le sorelle isolette, e salutarla / parean d’intorno ed onorarla a gara... Mentre una dolce melodia da lunge / s’udia, che l’onde e l’aure innamorava; / e del beato Inòpo eran le figlie / che cantando soave e carolando / ivan pel gaudio de’ promessi onori...».